giovedì 30 novembre 2006

Ron Mueck e l'iperrealismo


Cos'e l'iperrealismo?

L'iperrealismo è una corrente dell'arte contemporanea americana, nata negli Stati Uniti all'inizio degli anni Settanta e poi diffusasi in Europa. Chiamata anche superrealismo, realismo radicale, realismo fotografico, iperfotografismo, l'iperrealismo rifiuta la realtà, proponendone una riproduzione meccanica, spesso a partire dalla sua immagine fotografica ingrandita. Ne risulta dunque una visione che va al di là della realtà, stravolgendola. Pur derivando dalla Pop-art, l'iperrealismo non si propone come satira, giungendo talvolta ad un virtuosismo esasperato.


Chi è Ron Mueck?

Attualmente Ron Mueck è uno dei più importanti iperrealisti viventi ma le vicessitudini della sua vita l'hanno portato a diventare artista molto tardi.
Nato in Australia da genitori tedeschi, ha viaggiato per gli Stati Uniti, vive a Londra e per venti lunghissimi anni non ha avuto nulla a che fare con l’arte intesa nel senso stretto del termine. Il suo curriculum vitae è una giungla di importanti esperienze in programmi per l’infanzia, effetti speciali per il cinema, pubblicità. L’utilizzo del silicone e di materiali acrilici a cui ci ha abituati non è nulla di nuovo, è un’abilità già padroneggiata per film come “The Storyteller” e “Labyrinth” di Jim Henson. Tuttavia tra il 1996 e il 1997 Ron Mueck prese con tutta probabilità la decisione di applicare le sue capacità ad altri ambiti, e così nel 1997 ha fatto il suo ingresso nel mondo dell’arte nel modo più clamoroso: con la mostra “Sensations: Works of art from the Saatchi Collection” alla Royal Accademy di Londra, presentata più tardi anche alla Hamburger Bahnhof a Berlino. La sua attuale solitaria alla Hamburger Bahnhof (Berlino) trasporta i visitatori nel suo mondo fatto di sculture figurative alle quali manca solo l’alito vitale. È solo questo? È solo la sua grande abilità manuale a trasformare i suoi pezzi in opere d’arte, a suscitare nei visitatori un miscuglio di sentimenti, ma mai indifferenza? Noi pensiamo ci sia molto di più che la pura realtà di un corpo umano e delle sue crude imperfezioni (brufoli, peli sgradevoli, unghie tagliate male, capillari rotti) che “Wow, sembrano proprio veri!”. Tutte queste sculture quasi vive sono vulnerabili. E non certo a causa delle loro imperfezioni, ma perché sono rappresentate in momenti privati durante i quali essere al centro dell’attenzione sarebbe imbarazzante o spiacevole quasi per chiunque.Gravidanze allo stadio più avanzato, nudità, la scoperta della propria immagine allo specchio, invecchiamento. Mueck potrebbe facilmente ferirli. Non lo fa. Li protegge con lo loro stessa dignità, con la loro stessa integrità. Shockare, offendere, ferire: in qualche modo risulta facile. Occuparsi di esseri umani (anche se, in questo caso, fittizi, essendo essi il prodotto di una mente prolifera) in tali momenti e in un modo così delicato è più difficile.

Per chi fosse interessato a quest'artista consigliamo di visitare la sua mostra in attuale svolgimento fino al 04 Febbraio 2007 al Brooklyn Museum of Art di New York (se possibile anche il nostro BLOG la visiterà ed, eventualmente, ve ne darà conto in un esaudiente post). Per ulteriori informazioni sulla mostra consultate il sito http://www.brooklynmuseum.org/




martedì 28 novembre 2006

Ricordando Tiziano Terzani


A due anni e quattro mesi dal suo, come diceva lui, lasciare il suo corpo è giusto ricordare quello che è, probabilmente, il più grande dei giornalisti italiani. Chi l'ha conosciuto, come me, solo attraverso i suoi libri trova una perfetta corrispondenza con i racconti di chi l'ha apprezzato in vita e ne parla in maniera entusiastica ancora al presente; Terzani è stato, soprattutto culturalmente, uno dei giornalisti più straordinari per la sua capacità di capire gli altri e di comprendere la realtà da tutti i punti di vista, non si è mai legato a restrittivi idealismi ma ha invece cercato la verità laddove ancora sfugge alla furia dell'occidentalismo, laddove è ancora pura.


Pubblico di seguito una delle ultime interviste rilasciate da Terzani al quotidiano "la Repubblica", sono sicuro che incentiverà, chi non lo conosce ancora, a leggere i suoi libri .


IL MIO ULTIMO VIAGGIO.

Un'intervista inedita a Tiziano Terzani.di Fabrizio Revelli È un saluto in extremis, ma ironico, gioioso, nello stile di un grande reporter che racconta se stesso.Sono due risate, che esplodono dalla gran barba bianca, ad aprire e chiudere l'intervista. C'è la curiosità irriducibile del grande giornalista, che ci racconta come un reportage sette anni di battaglia contro il cancro. C'è la sua strepitosa faccia da pirata, la voce tonante, l'ironia, l'orgoglio del fiorentino che «la sa sempre lunga» ma infine supera la barriera del proprio scetticismo.E c'è tutta la forza di Tiziano Terzani, dell'uomo bello e vitale che sta per abbandonare in serenità il proprio corpo, del vecchio reporter di guerra che maledice ogni guerra, nell'intervista televisiva che Mario Zanot ha realizzato e che Rete 4 trasmetterà lunedì prossimo. È stata girata il 27 e 28 maggio scorsi, esattamente due mesi prima della morte di Terzani. Repubblica l'ha vista in anteprima. Si intitola "Anam, il senzanome": così Terzani aveva scelto di chiamarsi nei tre mesi passati in un ashram indiano, nel tentativo di tagliare i ponti col mondo dei sensi, dei desideri, di «ritirare gli anni e la testa nel guscio come fa la tartaruga e prepararsi a lasciare la vita». È questo intento che gli aveva fatto declinare, in un primo tempo, l'offerta di una intervista televisiva su di sé: «Alla fine della mia vita - scriveva a Zanot - non voglio ricadere nella orribile trappola dell'ego che, assieme a quella dei desideri, ho dedicato recentemente molto tempo a distruggere. Giustamente lei suggeriva come titolo del suo lavoro Anam, punto di arrivo di quel tentato azzeramento dell'Io. Fare oggi un documentario su di me, ex-Tiziano Terzani diventato Anam, significherebbe in fondo tradire il lavoro a cui ho dedicato gli ultimi anni». Il regista insiste, e riesce a strappargli una promessa: poter registrare con la telecamera almeno un suo sorriso, o una risata. Terzani acconsente («Una risata non la si nega a nessuno»), e infine quell'attimo si dilata in due giorni di racconto.E comincia con una risata. «Un tumore? Ne ho vari, un po' di qua, un po' di là. Ma la cosa divertente è che ci convivo da sette anni. Beh, non credo che durerà molto a lungo. Ma la cosa curiosa, la cosa interessante è che io e quelli siamo una cosa sola, e sarebbe stupido pensare: loro ammazzano me, io ammazzo loro. Ce ne andiamo insieme perché siamo cresciuti insieme. E con questo voglio dire che per me questo cancro è stata una grande benedizione. Perché ero ricaduto nella routine della vita e questo cancro mi ha salvato. Perché finalmente all'invito di un ambasciatore a cena, a una conferenza stampa, a un viaggio a cui non ero più interessato, io potevo sottrarmi. Io ho il cancro. Il cancro è diventato una sorta di scudo, di barriera, di divisione tra me e il mondo da cui volevo staccarmi».In seguito verrà il lungo viaggio attraverso medicine alternative, luoghi di meditazione orientale, santoni e lama tibetani. Ma, quando arriva la rivelazione del «malanno», Terzani sceglie la ragione e la scienza: «Io ero vissuto in Asia fino ad allora quasi trent'anni.Ma quando si è trattato di scegliere che cosa fare non è che mi sono affidato a uno con il pendolo, o all'altro con delle pozioni magiche raccolte nella foresta. Io sono andato nel più grande centro di cancro del mondo e mi sono affidato alla ragione e alla scienza, della quale conoscevo bene i limiti, e durante la terapia questi limiti sono saltati agli occhi. Però ho fatto questo».A New York dagli «aggiustatori»: «Però bravi, bravi, a loro modo bravi. Non devo assolutamente disprezzare il loro lavoro. Tutto sommato mi hanno tenuto a giro ancora per sette anni». Quella New York dove già una volta era fuggito, a imparare il cinese dopo cinque anni di lavoro all'Olivetti: «Allora già una volta New York mi aveva salvato e di nuovo torno in questa città, meravigliosa e orribile nella sua violenza, per cercare la salvezza. E questa contraddizione l'ho sentita molto forte, perché in fondo c'era qualcosa di ideologicamente sbagliato in quello che facevo. Cioè, disprezzavo questa macchina di guerra e di violenza che l’America è. Per cui, come una grande macchina di guerra, è anche una grande macchina di guerra contro il cancro. E io, disprezzando un aspetto, andavo lì e mi facevo curare da questi qua. Infatti mi è piaciuto molto alla fine, quando sono andato dopo tutti questi anni per l’ultima visita, e mi hanno detto che non c’era più niente da fare… E ho trovato che la migliore cosa che potevo fare era tornare a vivere in pace nella mia baita, senza più medicine, senza più contraddizioni, senza più questo senso che andavo a chiedere aiuto a qualcuno che poi disprezzavo per altri versi».Al centro c'è la malattia, combattuta con ogni mezzo, tra medici e guaritori, chemio e stravaganze.Mesi a New York, da solo, il racconto della «Ragna», la macchina della radioterapia: «Questa macchina, la Ragna l'ho chiamata, era buffissima. Era in questa stanza, piena di luci, stranissima, con questa testa e questo busto, tonda con tutte le luci... ». Le mutazioni del corpo: «Entravo nel bagno, guardavo lo specchio e c'era uno che mi sorrideva, ma non ero io. Glabro, senza capelli, gonfio di chemioterapia. E mi continuava a sorridere». Poi, «la grande avventura», il viaggio per il mondo alla ricerca di una salvezza alternativa: «Strada facendo — e io adoro viaggiare, è il mio modo di reagire a tutto, anche a questo ho reagito viaggiando, mettendomi sulla strada, vivendo delle avventure — mi sono reso conto che in verità io non volevo una medicina per il mio cancro, volevo una medicina per quella malattia che è di tutti, che non è il cancro: la mortalità».Un viaggio che il gran curioso Terzani racconta con ironia, con stupore: «Cose curiose ne ho fatte di tutti i colori. Lavaggio del colon, dieci giorni in un'isoletta della Thailandia con digiuni completi e clisteri di 18 litri al giorno due volte. Poi sono stato dai guaritori filippini, quelli che tolgono sangue, budellina di pollo dalle tue interiora». L’India fantastica: «Un'altra grande esperienza che ho fatto è in questo famoso ospedale ayurvedico, dove sono arrivato e la cosa che più mi ha colpito era l'elefante. C'era un elefante! Nel cortile! E ogni giorno c'era una cosa stupenda, calava il sole e iniziava un teatro meraviglioso, fino all'alba. Con suoni di cimbali, barriti di elefanti, balli, strane danze, che erano parte della cura perché i malati assistevano a questo spettacolo degli dèi scesi sulla terra, come a parte della loro terapia».E alla fine del viaggio, dopo i lama tibetani, le pozioni diluite con piscio di vacca («Ma io, fiorentino, piglio una pozione col piscio di vacca?»), le palline d'orzo, l'ashram («Ero Anam, senzanome, è stato buttare alle ortiche una cosa, come un vestito che ti sta stretto»), la conclusione: «I miracoli esistono, ma tu devi essere l’artefice del tuo». E il miracolo è l’accettazione della sofferenza, l’equilibrio ritrovato: «A un certo momento, paf, basta, chiuso. Non voglio più sentire niente di tutta questa roba, perché la cura ho capito che è un’altra. Non è la cura, è la guarigione che cerco. E la guarigione è la ricostruzione dell’equilibrio. In mezzo, l’11 settembre, l’orrore, il pensiero «che potesse essere il momento di un grande ripensamento», le Lettere contro la guerra, «dopo aver fatto per tutta la vita il corrispondente di guerra mi pareva arrivato il momento per dire che mi sentivo ormai in verità uomo di pace». Infine il ritorno all’Orsigna, alla casetta di legno che s’era costruito dove stare solo: «Per me era importante aver capito questo, che il fine della mia vita era di ristabilire un’armonia, con quel che mi circonda, con la gente a cui tengo, e con questo prepararmi all’ultimo passo della vita, che è la morte, senz’angoscia, senza la pretesa che troverò una cura». Godere di ogni giorno «come fosse un altro giro di giostra».«Io sono in pace. Sono in una condizione stupenda, sto benissimo. E il mio corpo, me ne staccherò, lo lascerò lì e andrò via». Un solo cruccio: «Mi incuriosisce morire, mi dispiace solo che non potrò scriverne». E un consiglio finale: «Ridere, io trovo che ridere è una cura, è parte della guarigione. Infatti un’altra delle terapie che ho scoperto in India è la terapia del sorriso, del ridere. Per cui il consiglio che do a tutti è cominciare con una gran risata e finire con una gran risata».

lunedì 27 novembre 2006

Chi è Maurizio Cattelan


Maurizio Cattelan, il più quotato sul mercato tra gli artisti italiani viventi, nasce a Padova nel 1960 e inizia a lavorare a Milano, realizzando oggetti non-funzionanti, in sintonia con le tendenze del concettuale. Il debutto espositivo è nel 1991, alla Galleria d'Arte Moderna di Bologna, dove presenta «Stadium 1991», lunghissimo tavolo da calcetto, con undici giocatori senegalesi e altrettanti scelti tra le riserve del Cesena. Già nel 1986 aveva lanciato una provocazione, con «Untitled», del 1986, una tela squarciata in tre pezzi alla maniera di Lucio Fontana, creando però la «Z» di Zorro, che sarà il suo «marchio» negli anni successivi. L'artista si guadagna un forte riscontro dal pubblico e dal mercato dell'arte. In una performance a Milano, Cattelan attacca al muro con lo scotch il suo gallerista Massimo De Carlo.METEORITI SUL VATICANO - L'opera più nota più nota di Cattelan «La Nona Ora», scultura realizzata nel 1999 che raffigura Giovanni Paolo II abbattuto a terra sotto il peso di un enorme meteorite e circondato da vetri infranti. Al centro di molte polemiche, il lavoro è stato esposto alla Royal Academy di Londra e a Varsavia e battuto da Christiès nel 2001 per la cifra record di 886 mila dollari, all'epoca equivalenti a due miliardi di lire.LA BIENNALE AI CARAIBI - Cattelan vive a New York, ma le sue provocazioni si trovano in mezzo mondo. Ai Caraibi l'artista ha organizzato la «sesta Biennale»: peccato che non ce ne fossero mai state prima e non ne siano seguite altre. L'«installazione» consisteva in due settimane di villeggiatura gratis per gli artisti invitati e nessuna opera esposta, lasciando a bocca aperta le delegazioni di critici accorsi inutilmente. Persino con la Biennale vera, quella di Venezia, Cattelan non ha scherzato. Nel '93 ha sconvolto la laguna mettendo in scena «Lavorare è un brutto mestiere», il cui obiettivo era quello di vendere a un'agenzia di pubblicità il suo spazio espositivo.L'ASINO E I DOTTORI - A New York, sulla 20esima strada, Cattelan ha aperto una vetrina minimale, la «Wrong Gallery», dove di volta in volta viene esposto un artista. È sempre un evento e i newyorkesi ne vanno matti. Le quotazioni «stellari» delle sue opere generano spesso critiche e malumori, nel mondo dell'arte e non solo. Cattelan non si è risparmiato le sue uscite spiazzanti neanche nel giorno della laurea honoris causa conferitagli dalla facoltà di Sociologia dell'università di Trento. Identificandosi con un asino, ne ha regalato uno imbalsamato all'ateneo. Titolo dell'installazione «Un asino tra i dottori».

Apertura ufficiale BLOG.


bENVENUTI, nel primo (o almeno penso) BLOG made in PORTOMAGGIORE (FE) e indirizzato a tutti i navigatori solitari con la passione dell'ARTE e della CULTURA.